venerdì 23 maggio 2014

Non chiamiamoli eroi...

Questa storia risale a 22 anni fa, 22 come gli anni che mi separano da mia madre, come il giorno del mio compleanno, come il giorno che è appena finito.... un numero importante per me, il numero delle cuspidi, di quelli che non sai mai di che segno sono, e allora gli chiedi a che ora sei nato, o cerchi di intuirlo da come parlano, si muovono, si relazionano.

Enrico Deaglio per LaRepubblica

Già il 1992, leggendo l'intero articolo sopra citato tantissime immagini si sono formate nella mia testa, le serate passate alla tv a seguire il maxiprocesso e mani pulite.... non so cosa intendesse Deaglio con età della ragione... io nel 1992 compivo 8 anni, e forse tante cose non le capivo, ma le immagini, quelle sono impresse con una chiarezza e una nitidezza difficili da spiegare. E ricordo benissimo dov'ero il 23 maggio, e il 19 luglio. Ricordo il tono di voce di mia madre, la rabbia, l'incredulità, lo sdegno. E le immagini del tg, tutte quelle macerie, un anno di bombe, in Italia, in quei Balcani che ancora, più o meno, si chiamavano Jugoslavia, un anno di processi, un anno che nella testa di una bambina di 8 anni non può che lasciare un'impronta profondissima.

In questi 22 anni non ho mai dimenticato quei giorni, e ho avuto occasioni di rivederli, di discuterli, con la testa di adolescente, e poi di adulta, con lo sguardo del presento storico/politico e la consapevolezza, pur nell'impossibilità di avere certezze e verità innata in questo paese, di come gli eventi di quell'anno siano profondamente legati a tutto ciò che di più malato infesti il nostro paese oggi più di ieri. Non mi fermerò qui a fare un'analisi politica, e non perché questo voglia essere un blog apolitico: io la parola apolitico la schifo e la cancellerei volentieri dal dizionario, anche perché pensandoci bene non significa nulla, se politico è ciò che riguarda la vita di una comunità come può quest'attività essere negata mettendo una stupida a davanti?
Non lo farò perché non me la sento, perché ci vorrebbe troppo tempo, energia, e c'è chi è più competente di me nel fare lunghe e accurate riflessioni storiche e politiche.
Ma una cosa, una cosa che tanti prima di me hanno detto, non solo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma di tanti altri, una cosa voglio dirla, devo dirla, e ripeterla fino allo sfinimento: NON CHIAMIAMOLI EROI. Chi lo fa, anche se in buona fede, continua a ucciderli e a ucciderci ogni giorno. La lotta alle mafie, alle ingiustizie, agli imperialismi, a ogni potere forte che prevarica l'interesse della cosa pubblica non ha bisogno di eroi, ma di Coraggio. Ammiriamo il loro coraggio e prendiamoli a esempio a modello, pensandoli sempre come persone, che, "semplicemente" hanno accettato di rischiare e dare la vita per valori che dovrebbero essere condivisi dal genere umano intero. Rispettiamoli, raccontiamo di loro ai bambini, ma sempre calandoli da quel piedistallo che rende gli eroi uomini straordinari capaci di compiere ogni alta impresa legittimando tutti gli altri a girare la testa dall'altra parte senza indignarsi, senza lottare, arrendevoli e asserviti.




martedì 20 maggio 2014

Ri-Scrivere (Appartenza)




Venerdì, durante il secondo incontro di "Moving Landscape", al quale purtroppo non ho potuto partecipare, ci era stato chiesto di portare uno scritto, da condividere, e ognuno di noi avrete riscritto il testo di un altro. 

A me è stato assegnato il testo di Mary, date che nemmeno lei c'era, a lei il mio, lo riscriveremo per conto nostro, poi li condivideremo. Ho appena riscritto il su racconto, è stato più difficile del previsto, ma mi è piaciuto, mi sono lasciata per 24 ore prendere dalle immagini mentali che mi aveva suscitato, non curandomi di quale fosse il senso per lei, e poi ho spostato il punto di vista. Non posterò qui il racconto di Mary, non ora almeno, e non senza il suo consenso, ovviamente. Posto invece il mio, aspettando con eccitazione e curiosità di leggerlo e farvelo leggere riscritto da lei...


Appartenenza

Sono giorni che ci penso... anzi forse sono anni... ma in questi giorni, passati in val d’Itria con la mamma, dopo il laboratorio, un intero fine settimana senza internet e telefono, trascorso a leggere Rodari e esplorare posti nuovi, vicini e allo stesso tempo diversissimi, il pensiero sull’appartenenza si è fatto pressante al punto che è arrivato il momento di scriverne un po’.

Il punto è che da quando vivo qui sento così spesso frasi che iniziano con “la mia terra”, oppure “io sono salentina/o.” E così la domanda, di dove sono io, riemerge sempre più spesso.

Io non lo so di dove sono, io questa appartenenza ad un luogo geografico non la sento. Io sono il rumore di un treno che attraversa la Maremma, sono la bambina che si addormenta su un’amaca in traghetto tra Napoli e le Eolie, che impara a guidare sull’Aurelia. Io sono un sacco di luoghi ma non credo di appartenere a nessuno di essi...

Volendo proprio fare uno sforzo e identificarmi in un luogo dovrei dire che sono di Roma. In fondo mia madre e mio padre sono nati lì, e io ci ho vissuto per 24 lunghi anni. Roma significa moltissimo per me, e sempre sarà così.
I primi amori, le fughe in motorino, la scuola, la militanza, i concerti, i cortei, gli amici del cuore di sempre, sono tutti a Roma. Eppure a Roma non mi sono mai sentita davvero a casa, e secondo me in pochi ci si sentono davvero. E l’Umbria? Sono nata a Narni, vissuta ad Amelia per i primi tre anni della mia vita, ma ci sarò tornata si e no 5 volte in tutta la mia vita in Umbria, e nonostante ci siano dei legami con quei luoghi, o meglio ancora dei richiami, non si può dire che io senta nessun senso di appartenenza... e come potrei d’altronde? Non c’è neanche il mare... Allora proviamo col sangue, magari qualcosa esce. I miei nonni paterni sono napoletani, mia nonna materna salernitana, mio nonno piemontese. Dunque per legame di sangue potrei essere napoletana.. e il richiamo del sangue lo sento da sempre... ma quale legame ho con Napoli? Un legame istintivo fortissimo, come quello che ho con Marsiglia, pur avendoci passato solo 4 giorni in tutta la mia vita, credo che sia perchè amo le città di porto, e i noir di Izzo.  E certo le estati iniziate con l’infanzia e mai finite passate tra Maremma e Sicilia non mi rendono nè toscana, ne tantomeno, ahimè, Siciliana, anche se sono i posti che più porto nel cuore, e certo mi ci sento proprio bene. E finalmente arriviamo al Salento... qui si, davvero, e forse per la prima volta nella mia vita, mi sento a casa. Completamente, nel bene e nel male questa è casa mia. Ma non posso dire di essere Salentina, non c’è quell’appartenenza, non ne ho la memoria storica. E parafrasando Gaber, non mi sento nemmeno italiana (ma per fortuna o purtroppo lo sono).

In fondo quello che sto scrivendo, in questa notte di primavera che mette il buonumore, ma pure un filo di malinconia, l’ho sempre saputo, e non mi ha mai dato pensiero. Finora. In questi giorni invece questo tema è emerso riportandomi a farmi di nuovo la consueta domanda che tanto mi mette di cattivo umore quando mi viene posta “ma tu di dove sei?” , come se una parte di me si sentisse da meno a chi questa appartenenza la sente forte, e in questa appartenenza trova delle certezze, magari anche amare, indesiderate, o indicibili, ma comunque certezze. Beh in questi giorni ho capito che ci sono persone che appartengono ai luoghi ed altre che appartengono a cammini... ed è una cosa che un po’ puoi scegliere un po’ no, e che comunque ti caratterizza ma non ti definisce completamente... e allora buono così. Io appartengo al sud (fin qui almeno ci arrivo), alla strada, alla ferrovia, e soprattutto al mare. Ed è solo questione di accettarlo. e poteva anche andarmi peggio.

venerdì 16 maggio 2014

Le donne lo sanno


Le donne lo sanno che niente è perduto
che il cielo è leggero
però non è vuoto
le donne lo sanno
le donne l'han sempre saputo
(Le donne lo sanno_Ligabue)


Ieri sera, pensando al post di oggi, mi era venuta una mezza di idea di parlare un po' delle donne straordinarie che ho incontrato nel mio percorso personale e professionale, ma stavo per desistere. Avevo paura che uscisse qualcosa di banale, di non riuscire a dire quello che volevo, di risultare tristemente celebrativa. Poi mentre stamattina ero ancora in pigiama a capire come gestire la giornata si sono presentate sotto casa mia Giulia e Sara, vulcaniche e sorridenti, per darmi un cartone immenso recuperato chissà dove e chissà quando, per costruire un albero da decorare in un laboratorio di riciclo. Mi sono convinta che fosse giusto parlare un po' di questa eccezionale energia femminile.

Volevo impostare questo posto come una piccola galleria di ritratti delle donne con cui condivido il mio percorso di crescita umana e lavorativa, così ho iniziato a buttare giù un po' di nomi, tralasciando volutamente madri, sorelle, cugine, zie nonne e amiche di sempre, non perché non siano donne straordinarie ma per il bisogno di restringere il campo alle donne con cui condivido il presente, i progetti e le iniziative che danno un senso alla mia vita nel qui ed ora. Ho iniziato a fare un elenco e ho realizzato che sono comunque troppe: Giulia, Sara, Nunzia, Antonia, Betta, Pamela, Nadia, Claudia, Marta, Miriam, Ermelinda, Francesca, Marcella, Annalisa, Monica, Ilaria.... e sono certa di averne comunque dimenticata qualcuna, ognuna di loro racchiude dentro tutto un mondo. Queste donne sono per me esempi, di determinazione e coraggio, compagne di avventura, specchi per guardarmi dentro e intorno allo stesso tempo.

Insomma ho capito che fare un ritratto di ognuna di loro in unico post sarà difficile. Magari come Nadia con le sue chiacchiere da salotto potrò dare loro uno spazio settimanale sul blog... intanto cerco di spiegarmi e spiegarvi perché ho tanto bisogno di parlare di loro.

la prima risposta che mi viene in mente è che sono semplicemente straordinarie. Tutte uniche e diverse tra loro ma con una cosa in comune: un enorme CORAGGIO, che dimostrano ogni giorno portando avanti con passione le cose in cui credono, che sia un lavoro, una relazione, una famiglia, un desiderio di libertà, un principio, la voglia di cambiare il mondo o almeno quel piccolo pezzo cui sentono di appartenere. 
Sono, anzi siamo, forti senza rinunciare alla dolcezza, ambiziose ma mai competitive, o almeno non nel senso più infido del termine, anzi, ci sosteniamo a vicenda, come possiamo, sempre. E se ci incontri per strada mentre corriamo da una parte all'altra, cercando di tenere a mente che non possiamo fare tutto ma provandoci comunque, un sorriso, anche nella giornata più nera, non lo neghiamo mai. 

E anche se siamo state ferite e deluse non portiamo rancore, sappiamo ricostruirci ogni volta, aiutare e chiedere aiuto, dare e lasciare andare. 

E se qualcuno se lo stesse domandando, no, non odio gli uomini, nemmeno quelli che mi hanno più delusa. Anzi, più cresco più incontro intorno a me una serie di uomini altrettanto straordinarie, e magari parlerò presto anche di loro....



mercoledì 14 maggio 2014

Il peso della valigia



La mia passione per la spazzatura, per lo scarto, mi ha portato spesso a frequentare le discariche, quell’anno giravo per quella di via Imbriacola, la stessa zona dove è il centro di “Accoglienza” altra discarica, ma di vite umane. In quello spazio vi erano i rifiuti che poi partivano in nave verso Porto Empedocle, in una zona venivano ammassate le barche usate dalla gente che arrivava a Lampedusa, prevalentemente dall’Africa, c’erano grosse cataste di scafi triturati, sembravano enormi onde di legno, fu in uno di questi mucchi che trovai un pacco accuratamente chiuso con del nastro adesivo. Quando lo apri mi ritrovai in mano foto, lettere, testi sacri.

Da bambino giocavo spesso a fare l’esploratore, come capita a molti, immaginavo sempre di scoprire una piramide o un antico tempio, quel giorno ebbi la stessa sensazione di quando giocavo in quel modo. Ne parlai immediatamente a tutti gli altri di Askavusa e in particolare con Annalisa e Gianluca cominciammo ad andare regolarmente in discarica a raccogliere tutto quello che potevamo. Molti ci guardavano con aria stupita, come se fossimo dei pazzi, altri addirittura con disprezzo, pochi capivano, ma noi andavamo avanti. Ogni giorno trovavamo qualcosa che ci lasciava a bocca aperta: foto, diari, lettere, scarpe, utensili da cucina….. Nella discarica si aggiravano fantasmi, energie di ogni tipo, il coro degli ultimi che saliva fino alle viscere cercando corpi con cui prendere parola, bocche con cui gridare, pugni con cui combattere, occhi per piangere, occhi per ridere.

Giacomo Sferlazzo da "Con gli oggetti" sul blog del Collettivo Askavusa



Apro questo post con un frammento di un lungo articolo (che consiglio di leggere con attenzione a che vuole sapere qualcosa di più sulla storia recente di Lampedusa) del mio amico Giacomo. 

La passione per la spazzatura, per lo scarto, ha molte sfaccettature, e in questi 29 anni ne ho esplorate tante, e tante ancora ne voglio esplorare.

Il titolo che ho rubato oggi, di una canzone di Ligabue di qualche anno fa, racconta molto bene il rapporto con gli oggetti, nella vita di una giovane viaggiatrice che ha due valigie: una di pelle, che non è nemmeno mia, ma mi è stata prestata a lungo termine da un amico che ha deciso di non volare più, rimettersi lo zaino in spalla e dedicarsi all'andamento lento, e una metaforica, ben rappresentata dalla scatola di latta che mi ha regalato Andrea nel nostro primo viaggio insieme.

Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui 

e ti è toccato partire bambina

con una piccola valigia di cartone 
che hai cominciato a riempire 

due foglie di quella radura che non c'era già più 
rossetti finti ed un astuccio di gemme 
e la valigia ha cominciato a pesare 
dovevi ancora partire ....


Si dice che le persone si dividono in due categorie: i "buttatori" e i "conservatori". Liberarmi dalla mania di conservare qualunque cosa per me è stato un percorso lungo, ci sono voluti una marea di traslochi, una convivenza finita in maniera poco pacifica, una serie di stanze troppo piccole per contenere tutto ciò che negli anni non avevo avuto il coraggio di buttare e soprattutto mio padre che ogni volta che entrava in camera mia diceva "sembra di essere a Baghdad/Beirut dopo i bombardamenti... se vuoi ti do una mano, io adoro buttare". 

La cosa è bella è che ho iniziato a interessarmi davvero agli oggetti, alla loro storia, alle energie che contengono e portano con loro proprio quando ho iniziato a liberarmene. Ho capito che la lezione sull'amare che è saper lasciar andare si applica benissimo anche alle cose, ho capito che non sarei mai diventata una "buttatrice" perché buttare è politicamente e moralmente fastidiosissimo per me, ma ho capito che esistono anche altre due categorie: il "regalatore" e il "trasformatore". Le ho felicemente sposate entrambe. E così la mia stanza è rimasta una piccola Beirut, ma gli oggetti che la popolano sono vivissimi, arrivano, vanno via, vengono trasformati. 

L'incontro con il digital storytelling, in cui mi si chiedeva di portare un oggetto che fosse legato al mio lavoro o ai miei valori, la scoperta insieme a Claudio, di attività manuali meravigliose per facilitare percorsi narrativi, e l'incontro con Nadia, una ragazza piena di energie, che sta con coraggio trasformando la passione per il riuso creativo nella sua attività principale, mi hanno aiutata a canalizzare questa passione per oggetti apparentemente inutili: scoprirne, documentarne tracciarne e inventarne le storie. 


Per dare e ridare dignità a questi oggetti, perché siano un mezzo per le persone per raccontare le loro storie, per puro piacere. qualunque sia la ragione farli rivivere, trasformarli. e poi darli via, sempre e comunque, non attaccarsi al feticcio dell'oggetto ma innamorarsi della sua storia, e poi regalarla a chi se la merita, a chi ne ha bisogno, a chi sappiamo che la terrà con se per un po' e poi la farà girare ancora e la trasformerà ancora, e ancora.

E se le storie degli oggetti vi appassionano come a me restate sintonizzati perché in pentola bolle parecchia roba... 

sabato 10 maggio 2014

LA VOCE DEL SILENZIO

Se potessi ricominciare tutto, avrei parlato meno ed ascoltato di più
(Anna)

Nelle ultime 72 ore ho ascoltato tantissimo. 
Insieme al mio amico Andrea, e ad Ermelinda, nuova compagna di avventure, questa settimana abbiamo condotto un modulo sul videocurriclum, nell'ambito di un workshop più ampio, organizzato appunto dalla società di Ermelinda, sul portfolio worker.

L'esplorazione del digital storytelling continua e si evolve sempre, dal piacere di raccontare storie con questa tecnica, al piacere di facilitare il parto delle storie degli altri. 
In questo laboratorio ho scoperto il piacere immenso di registrare. Una fase importante, bellissima e delicatissima, in cui si ha finalmente, dopo tanti splendidi momenti di lavoro di gruppo, il piacere di un momento a tu per tu. Di un ascolto a due. Registrare la storia di qualcun'altra non significa solo accendere un registratore e controllare che il suono sia pulito; registrare le storie degli altri è un piccolo gesto di amore. Significa essere l'ascoltatore numero uno, la prima persona che raccoglie una narrazione destinata ad essere condivisa e offerta ancora ed ancora, la persona che ti aiuta a vincere l'imbarazzo di leggere qualcosa di tuo ad alta voce, in piedi, davanti a un microfono, e l'ancora più imbarazzante momento in cui si riascolta la propria voce...


Nelle ultime 72 ore ho registrato le storie di almeno 15 persone. Ho passato due mattinate intere praticamente chiusa nel bagno del Rettorato (eh già.... coi soffitti meravigliosi ma altissimi dei palazzi di Lecce l'unica speranza di avere un audio decente è registrare in bagno)
A volte ho rassicurato, altre o ho incoraggiato, in alcuni momenti è bastato essere lì, sorridente e aperta. 
Ma soprattutto ho ascoltato.




Non mi sono mai ritenuta una persona brava ad ascoltare, e invece comincio a sospettare di esserlo, in realtà. Sarà perché sono diventata più brava ad ascoltare l'interlocutore più difficile di tutti, cioè me stessa, o perché sono più serena, o semplicemente perché sto coltivando le mie doti empatiche. Qualunque sia la ragione sono semplicemente e felice emozionata e grata a tutto le circostanze e le apparenti coincidenze che mi hanno portata ad essere dove sono in questo momento, ad ascoltare e accogliere le molteplici voci che mi hanno regalato i bellissimi racconti di questi giorni.

Una voce sta cantando 
ma sono pochi ad ascoltare 
i gabbiani stan gridando 
per poterla soffocare 
altre voci piano piano 
stan crescendo da lontano 
se quel canto vuoi seguire 
puoi cantare 
E cosi' 
tu sarai 
uno in piu' 
con noi. 
E cosi' 
tu sarai 
uno in piu' 
con noi. 

(L.Battisti, uno in più)


martedì 6 maggio 2014

Attesa

A volte mi domando cosa mai stiamo aspettando... 
Silenzio
Che sia troppo tardi madame...

Oggi aspetto...
Non so bene cosa aspetto, aspetto Andrea, che arriva stasera col treno, che questa settimana terremo insieme un workshop sul videocurriculum

Aspetto il caricatore del computer che arriva ma non arriva

Aspetto di capire cosa sto aspettando

Aspetto che la natura faccia il suo corso

Aspetto il caldo che non si capisce cosa ha deciso

Aspetto che questa irrequietezza che mi assale da giorni sia spazzata via da qualcosa

Aspetto di avere voglia di fare ordine in camera mia

Aspetto e osservo l'attesa, la studio, la vivo con serenità, quasi passività si potrebbe dire. Insomma mi riposo, prendo fiato, forse è solo di questo che abbiamo bisogno. Di aspettare con fiducia. L'amore che non arriva, un po' di quella stabilità che quando non c'è manca, quando c'è fa sentire quasi in gabbia. Ascoltare se stessi, non temere le proprie ombre, non temere le lacrime ma cercare sempre i sorrisi....

venerdì 2 maggio 2014



Non è l'amore che va via

Di isole che ti cambiano la vita, e di incontri che non sai dove ti porteranno.

Stasera per caso mi sono imbattuta nel mio primo Digital Storytelling, realizzato un anno fa nel Laboratorio dal Basso: "Oggi a Pranzo:Cultura!"

Di quel giorno di maggio e di come mi ha poi portato a iniziare un percorso sullo storytelling ho già parlato in un post precedente, ma rivedere il video, a un anno di distanza, ha risvegliato in me emozioni forti e contrastanti.

Mi assalgono pensieri su come si cambia in soli 12 mesi, su come quello che era un pallido desiderio, un sogno in cui cullarsi in un pomeriggio torrido di primavera, stia diventando passo dopo passo la mia realtà, ed è bellissimo e allo stesso tempo faticosissimo. Stasera, che mi sento affaticata dai troppi progetti da seguire contemporaneamente,  sembra che questo passo avanti in concretezza, che è sicuramente una gran bella cosa, lo stia pagando con la perdita, o semplicemente un lieve allontanamento da alcuni miei amori.

E mi sono allontanata da Lampedusa, è quasi un anno che non torno, e rivedendo questa storia, tecnicamente molto più che imperfetta (ho anche pensato di rifare l'audio, ma poi mi sono detta che per quanto sporco e impreciso è anche lui una traccia di un cammino, ed è giusto che resti intatto) questa sera, mi assalgono domande a cui ancora non trovo risposta.

Lampedusa, il festival, i campi di volontariato, gli amici e i compagni incontrati sull'isola, le camminate solitarie nella notte sotto la luna, i racconti e il romanzo dedicati a lei e mai terminati, mi hanno cambiata dentro in una maniera che non avevo mai immaginato. Dolore e felicità, e soprattutto condivisione, condivisione, condivisioni. E amore.. amore nel senso più puro e allargato della parola, amore per la vita, amicizie profondissime nate o cresciute lì, e adesso dov'è tutto ciò?

Mi manca quella parte di me, ultimamente mi sembra di correre troppo, e di aver sacrificato delle parti importanti, seppure per obiettivi che sento miei e in cui metto una passione e una motivazione, e una fermezza, che raramente avevo sperimentato. 

Sarà un momento di stanchezza, ma stasera riesco a pensare solo a Lampedusa, e alla voglia di ritrovarmi un po'.... ma sono cosa difficili da descrivere... forse è meglio se vi faccio vedere la storia...